| CONTATTO
di Ivano Mingotti
Cazzo l'una e mezza. Fottuto incendio. Fottutissimo, fottutissimo incendio. Ho dovuto allungare la strada, ho dovuto ritardare l'appuntamento col mio letto. Sfiga maledetta. E dire che la serata non è stata brutta. Affatto. Ma domani inizierò alle quattro e mezza. Quattro e mezza. Non posso permettermi due ore di sonno. Non posso. Tranquillo, tra poco sono a casa. Spingo l'accelleratore, fra poco sono a casa. Le due meno un quarto. Il parcheggio. Il bagno. Il letto. Dormi. Dormi maledetto corpo, dormi. Non ce la puoi fare a rimanere sveglio fino a domani pomeriggio, dormi maledetto. Abisso. E poi di colpo la sveglia, potente. Mi spacca le orecchie. Improvvisa. Sembra quasi di non aver dormito affatto. Maledetto incendio. Maledetto. Sono le quattro e mezza, e già c'è il sole. Strano, penso. Ma non ho tempo per pensarci. Strano, ma devo andare alla macchina. Bagno, brioche, chiavi nella serratura. Fuori, uscire fuori, subito. Strada. Macchina. E lì, sul vialetto di casa, una ragazza. Le quattro e mezza di mattina. Una valigia in mano, aspetta. Una valigia in mano, ci si appoggia. Mi guarda. La guardo. Mi avvicino alla macchina, mi avvicino a lei. Quasi la sorpasso, mentre mi parla. Mi parla. Non è italiana, è evidente. Pelle brunastra. Color nocciola. Lingua di paesi lontani. Odore di sud america. Non capisco che chiede. Spagnolo. L'unica lingua che non ho studiato alle superiori. Le domando che c'è, devo andare. Mi tremano le gambe, arriverò in ritardo. E batte il sole. Le quattro e mezza. Mi risponde. Si regge sulla valigia. Mi risponde in inglese. Si è persa, non sa dove andare. Si è persa, i suoi la stanno cercando. Una valigia in mano, le quattro e mezza. Arriverò in ritardo. Le rispondo in inglese. Devo andare, che si metta ad aspettare in un posto ben visibile. Che si metta ad aspettare all'imbocco della via principale. La troveranno. Chiavi nelle mani, mi tremano le gambe. Mi sussurra qualcosa in francese. Lo capisco, intendo. Le dico che devo correre. Mi insulta. Stavolta usa il russo. Pensa che non l'abbia studiato. Poveraccia. Mi incammino verso la macchina, rispondo all'insulto. Il sole batte, lei mi guarda. Chiavi in mano, asfalto luminoso, rumore di passi. Infilo le chiavi nella serratura, apro la portiera. Devo scappare, devo andare. Lei resta ferma, mi guarda. Appoggiata alla valigia. Le faccio una smorfia, parto. Lo stop. Svolta a destra, in fretta. Non voglio guardare l'orologio, non voglio guardare l'orologio. Merda, l'ho guardato. Un quarto d'ora fuori. Sono in ritardo, sono in ritardo. Maledetto incendio. Maledetta valigia. Mi tremano le gambe, il volante tra le mani. Urla, urla alle mie spalle. Ovattate, attutite. Fuori. Il sole batte sul cruscotto. Guardo nello specchietto retrovisore. Una bicicletta, un cappellino. Il postino mi rincorre e grida. Mi rincorre e grida. Un ragazzo. C'è posta. Un quarto d'ora in ritardo, non posso fermarmi. Non posso fermarmi. E il sole batte sul cruscotto, mani sul volante, un quarto d'ora in ritardo. Merda, merda. Mi mordo le labbra. Merda. Una sigaretta. Merda, voglio una sigaretta. Luce. In cucina. Sono in cucina. Di nuovo a casa. E non ho ansie, non mi tremano le gambe. Nessun volante, nessuna chiave, nessuna macchina. Non sono sorpreso, sono calmo. Tranquillo. E' normale che sia in cucina, la cosa più normale del mondo. E la luce batte sulla porta finestra. E resto a guardare. Non mi muovo, e resto a guardare. Oltre la porta della cucina. Calma. Oltre il salotto. Calma. Butto gli occhi verso l'ingresso. La rampa delle scale dietro al muro. Il silenzio. Calma. Occhi puntati là e calma. E non tremo. Mi scuoto dentro, ma non tremo. Ho paura, l'ansia mi stringe il cuore, me lo trita, ma non tremo. E la mia bocca si muove da sola. Non penso più a niente, non penso più a nulla. Conto. Conto e basta. Uno. Calma e silenzio. Le pupille tremano, angoscia. Due. Tre. Continuo a fissare l'ingresso, la luce. La porta, il muro che mi separa dal vedere le scale. Quattro. Cinque. Ho già la nausea. Paura e terrore. Sei. Sette. Otto. Succederà. Ne sono sicuro. Succederà. Arriverà, apparirà lui, ne sono sicuro. Apparirà e mi verrà addosso, e sarà terribile, sarà traumatico. Nove. Non voglio andare avanti, non voglio vedere. Nausea, luce. Cuore che trema, labbra che come un pendolo procedono incessanti nella conta. Vorrei fermarle, non posso. E' inevitabile. Inevitabile. Dieci. Sbuca fuori dalle scale. Terribile. E il suo viso trasuda odio, trasuda violenza. Grande e grosso come una bestia, assetato di brutale ira. Resta lì, all'ingresso, per un attimo, a fissarmi. Famelico e omicida. Resta lì, bagnato dalla luce della porta. E' arrivato. Era inevitabile. E poi, poi non lo vedo più. L'ultima immagine prima del buio. Buio completo. Occhi che si aprono. Respiro che si contorce nella gola. Sono nel mio letto. Tra le mie coperte. Una mano al petto. Stringo la pelle. Il cuore non ha retto. Buio.
- Guarda, se potessi scegliere, anch'io morirei nel sonno - sibila una voce all'interno della camera. La barella si scuote sul pavimento. Sussurri di metallo, mentre l'infermiere strattona il corpo. Lo adagia sul lettino, lo stringe nei lacci. - Se potessi scegliere, non morirei a vent'anni - bofonchia l'altro infermiere. Le ruote cigolano. Dalle tapparelle, la luce del sole di un mattino qualunque. Il freddo pungente delle cinque. L'alba è appena passata.
Edited by macchiavelli3 - 26/10/2011, 14:52
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