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lista RACCONTI AMMESSE E VOSTRE CLASSIFICHE (MC IX EDIZIONE)

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Olorin
view post Posted on 7/1/2013, 16:02 by: Olorin




1. Dolcetto o scherzetto?, di Maurizio Bertino (1774 car. - ore 22.30)
Un bel racconto e soprattutto un bel personaggio quello del carnefice. La delicatezza con cui si mette in rapporto con Sara, le considerazioni e le domande semplici rivolte alla bambina, sgretolano l'endemica prevedibilità che avrebbe potuto affliggere questo tipo di racconto.
Intrigante il filo conduttore del 'dolcetto' che esalta la frase in chiusura.

Una proposta che mi sento di avanzare è quella di portare al presente i tempi verbali della prima parte e riservare il passato per il finale

2. La superstite, di Viola Lodato (1783 car. - ore 21.28)
Racconto a mio parere rimboccato nei 1800 caratteri. Le premesse tecniche (quelle fantascientifiche, intendo) sono date per scontate, fatto non sconcertante a priori, ma in questo caso l'inusualità dei dettagli e la loro incidenza sull'intensità della vicenda, fanno sì che questa indeterminatezza rimanga un po' indigesta.

Per esempio:
CITAZIONE
Lui sorrise e le diede una pacca sulla spalla

un ologramma che dà una più che mai consistente pacca sulla spalla della corporea protagonista?
Questo passaggio è un flash che innesca un sacco di domande su 'sti ologrammi e la loro capacità di rapportarsi con Julia.
E poi, perché li distrugge se nemmeno la speranza di portarli con sé nell'aldilà sostiene questa decisione?
Tra l'altro:
CITAZIONE
Ciò che le dispiaceva non era morire. Il problema era che, se davvero ci fosse stato un aldilà, ci sarebbe andata solo lei.
Non esisteva alcun paradiso per le creature create dalla sala ologrammi.

In questo passaggio molto nostalgico, non viene eccessivamente omesso il possibile desiderio da parte Julia di rivedere gli affetti della vita che conduceva prima di quella che viene definita 'la fine del mondo' , tutte le persone care che probabilmente erano state spazzate via da quel tragico evento? Loro in un eventuale paradiso ci sarebbero state...

3. La torta, di Alessandra Corrà (1775 car. - ore 22.42)
Ho letto più volte il brano, a lungo indeciso tra il surreale e l'inverosimile, però alla fine mi pare che sia quest'ultima sensazione a prevalere. La gravità e soprattutto il bersaglio della soluzione finale - l'avvelenamento degli 'amici' - mi sembrano aspetti che per motivazioni e crudeltà del gesto, leghino poco con all'antefatto.

La descrizione che il personaggio stesso offre del proprio disagio, è a mio parere troppo... poetica. Un'elaborazione così 'sofferta' di un malessere interiore da parte di chi ne sia afflitto, fatico ad associarla alla follia, al piano allucinante che ne scaturisce.

A tratti provi a introdurre il tema dell'odio, ma appare un po' troppo avulso dal contesto più malinconico che rendi protagonista con tutta una serie di 'frasi ad effetto'.

Insomma, alla fine mi è sembrato di trovarmi di fronte a un Giacomo Leopardi stragista e la dicotomia delle due nature mi pare davvero insanabile.

4. Due dei, di Stefano Riccesi (1786 car. - ore 22.47)
"e l'istante dopo è tutto finito." è una considerazione che eliminerei dato che il narratore, che poi è anche colui che muore, quel 'istante dopo' non potrebbe mai commentarlo.

La mia sensazione è che il brano da una parte pretenda molta fiducia dal lettore per quanto concerne la base thriller della trama, visto che nulla di concreto offre affinché si possa rimanere emotivamente coinvolti da quanto nella emme sia il protagonista, dall'altra la percezione stessa che il personaggio dà della situazione giunge dichiaratamente 'anestetizzata', fatto che in un racconto di 1800 caratteri, in cui tutto ciò che un lettore deve elaborare lì sta, mi pare una scelta strategica un po' strana.

La narrazione nel finale non cambia ritmo e mantiene il medesimo tratto piuttosto analitico, distaccato, quasi contemplativo, sicuramente anche questa una scelta stilistica consapevole che però mi ha indotto a una modalità di lettura analitica, distaccata e contemplativa... alla fine, visti i fati narrati, un po' troppo poco coinvolgente.

5. L'ultima notte, di Leonardo Boselli (1784 car. - ore 22.44)
La mia impressione è che la leva tra preambolo e finale sia poco efficace, che non s'inneschi tra le due parti quell'effetto volano che dovrebbe dare energia al racconto.
La prima parte del brano tratta troppo brevemente (1800 caratteri sono davvero una manciata) di vicende adolescenziali piuttosto comuni perché si crei una qualsivoglia empatia, la seconda narra di tragedie purtroppo note e ricorrenti; la combinazione delle due 'quotidianità' sembra andare nella direzione più della cronaca che della storia, senza però avere il coinvolgimento di una vicenda realmente accaduta a sostegno.

6. Stasi, di Roberto Bommarito (1727 car. - ore 22.18)
La digressione circa la natura della 'stasi' che in breve passa da quel che è - la descrizione dello stato di assenza di movimento -, a emozione e infine a sentimento, l'ho trovata forzata e quindi un po' stucchevole nella sua funzione di artifizio letterario.

Questa frase:
CITAZIONE
Mio padre non volle perdere anche me, dopo la morte di mia madre. Perciò mi tenne prigioniero in cantina. «È comunque una cosa terribile»

con quel tempo verbale e a quel punto del brano, mi ha dato l'impressione di trovarsi fuori posto, perché spiega i motivi della situazione antecedente la 'liberazione' che avevi raccontato appena sopra.
Per questa sua collocazione logica, io l'avrei vista meglio col trapassato prossimo "Mio padre non aveva voluto perdere anche me, dopo la morte di mia madre. Perciò mi aveva tenuto prigioniero in cantina. «È comunque una cosa terribile»"

Le implicazioni e i risvolti psicologici narrati mi hanno coinvolto poco, ma questo non dipende da come tu li abbia espressi o rappresentati, bensì dall'oggetto in sé del racconto. Probabilmente non è così facile entrare in empatia col punto di partenza del personaggio, così sofferto e deviato, tanto che l'intensità della soluzione e della rivisitazione che il protagonista ne fa in chiave educativa nel finale, mi sfuggono.

7. Giù al fiume, di Marco Migliori (1787 car. - ore 22.50)
Fatico a comprendere la coerenza temporale del racconto; Davide, Marco e Roberto vengono scaricati da Luca perché sono in giacca e cravatta, mentre a suo dire avrebbero dovuto travestirsi. E lui? Lui è già vestito da barbone? Perché se non lo fosse, forse gli altri avrebbero ancora il tempo di inventarsi qualcosa...
E poi, considerando che si tratta di una festa di capodanno e che probabilmente quando stanno per recarvicisi saranno le 22.30, massimo le 23.00 e che una festa così esclusiva - "A quella festa lì quattro poveracci come voi non ce li porto", dice Luca - si sarà verosimilmente protratta almeno fino alle quattro/cinque del mattino, i tre rintronati sono quindi rimasti per 6 ore a fare avanti e indietro sulle sponde del fiume, intercettando infine l'amico inconsapevole sulla via del ritorno - 'sulla via del ritorno', perché se si ferma a vomitare sarà ben reduce dalla festa... -? e poi, tutto quel tempo in pattugliamento, senza incappare in altri sfortunati su cui mettere in pratica l'ignobile piano d'aggressione (tra cui il personaggio di apertura e chiusura del brano)?
Come dicevo, credo che la sintesi sia stata deleteria dal punto di vista della coerenza.

8. Nascondino di capodanno, di Nicola Rocca (1785 car. - ore 22.31)
Innanzitutto salta all'occhio la ripetizione dell'espressione colloquiale "E vi posso garantire che...".
Poiché si tratta di una richiesta esplicita di fiducia gratuita fatta dal narratore sulla base di antefatti che omette di condividere, la sensazione di credito che rimane nel lettore è molto netta e trovarsela nuovamente di fronte a breve distanza è come incontrare una persona che ti chiede dei soldi in prestito Martedì e poi degli altri Giovedì...

La trama non mi pare granché coerente. Quand'è che il protagonista ha perso la percezione di sé stesso, tanto da non sapere dove sia stato e cos'abbia combinato? Probabile risposta: quando ha preso la forma di lupo? Be', ma allora il finale non regge, dato che si specchia come tale, ma è comunque ben presente a sé stesso...
Data la trama, dovremmo trovarci di fronte alla classica amnesia metamorfica già utilizzata in Dr. Jekyll e Mr. Hyde, o nelle storie di lupi mannari (per l'appunto), Hulk ecc...: le due identità sono completamente separate, non coesistono e l'una si annulla nell'altra, tanto che la situazione classica è quella dell'individuo in forma umana che si risveglia in mezzo al massacro o nel suo letto di casa apprendendo dalla TV delle atrocità da lui stesso compiute nell'altra forma e di cui nulla ricorda.

Nel tuo brano tutto torna: il ragazzo vaga per gli ambienti incappando nelle vittime e chiedendosi chi le abbia uccise, proprio come farebbe un lupo mannaro tornato in forma umana.

Solo che poi tu ci fai scoprire che lui è in forma di lupo, la stessa in cui ha ucciso le vittime... ma allora perché ha scordato di averlo fatto? Perché a un certo punto ha cominciato a fuggire da sé stesso? Ha sbattuto la testa in uno spigolo e si è rintronato?
Inoltre, prende un accendino, lo usa (presumo con le mani) e nemmeno in quel frangente, alla luce della fiamma, vede il sangue sulle proprie mani di cui ci dice alla fine?
E poi, percepisce il sudore sui palmi, ma non il sangue... strano, no?
 
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14 replies since 28/12/2012, 11:53   235 views
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