Stefania
I suoi occhi cerchiati di nero come se stessero affondando in un abisso, le gambe piene di piccoli tagli lasciati dalla lametta, le ali con le penne sciupate, la prima volta che vidi Stefania sembrava una puttana come le altre.
«Te la faresti?» domandava mio cugino, alla guida della sua nuova Ford Ka. Di solito guidava quella stupida macchina come se si credesse la reincarnazione di Senna, rallentando solo per passare in rassegna le ragazze che battevano il marciapiede.
Con l'alito che puzzava di alcool, insisteva: «E quell'altra invece? Che ne dici?»
Eravamo giovani. Eravamo due emeriti coglioni. Più fumo che ossigeno nei polmoni, l'ennesima bottiglia di Smirnoff che rotolava sul sedile posteriore dell'auto, eravamo bravi a fare la parte dei duri, specie dopo le undici di sera. La verità era che la disperazione ci terrorizzava tanto da costringerci a sbagliare.
«Sì, quella me la farei» rispondevo di tanto in tanto, mezzo ciucco pure io.
Abitavamo nello stesso quartiere. Sceglietene pure uno a caso. Un quartiere qualsiasi di una città qualsiasi. Vanno tutti bene, purché sia dimenticato da Dio.
Stefania. Conoscere il nome di una puttana significa avere sorpassato una linea invisibile che separa il mondo delle menzogne comode da quello reale, duro, brutto, merdoso, puzzolente, marcio, schifoso, terrorizzante dei bassifondi.
«Rimani» mi disse una volta lei, dopo aver fatto.
Erano passati due anni dai tempi in cui io e mio cugino facevamo i coglioni, sostando vicino alle ragazze, prendendole in giro.
Non disse la stessa cosa a mio cugino. «E io?» protestò lui, buttando via il condom usato. Lei tacque. Prima di andarsene, lui insistette: «Però a lui fargli pagare di più, altrimenti m'incazzo.»
«Cosa vuoi?» le domandai, una volta rimasti soli.
Lei si alzò dal letto, ancora nuda, bella e usata. Voltandosi, aprì le ali e mi domandò: «Come sono?»
Le dissi la verità. «In uno stato orrendo.»
«Orrende abbastanza che potrebbero prendere fuoco da sole?»
«Non essere ridicola» le feci. «Lo sai come stanno le cose, no? Voi fenici non potrete rinascere finché non tornerà un minimo di speranza nel mondo. Così come stanno le cose, c'è troppa disperazione perché avvenga.»
Si lasciò cadere al bordo del letto, sconfitta. Fissò il pavimento senza dire nulla. Io invece fissai lei. O meglio, le sue lacrime.
Non riuscii ad abbandonarla. Non quella notte, né tanto meno quelle che seguirono.
«Sei impazzito?» sbottò mio cugino, spalle al muro, mentre io gli puntavo contro il coltello a serramanico.
Aveva le mani sporche.
«Perché?» gli domandai, avvicinandomi di un passo.
«L'ha voluto lei» ribatté lui. «Ma perché ti scaldi tanto?»
«Cosa ti ha dato in cambio?»
Lui scrollò le spalle. «Nulla, è stato divertente, tutto lì.»
Puzzava di benzina.
«L'hai fatto per gelosia?»
Quando dico che aveva le mani sporche, intendo nere. Nere come il carbone. «Aspetta» fece lui, «non mi dire che provavi qualcosa per quella troia?»
«Io? No, certo che no» dissi. «E tu?»
La verità è che un mondo senza speranza fa tanto paura da indurci a mentire agli altri, a noi stessi.
«Nemmeno io» fece lui, scuotendo la testa come se avesse una cazzo di molla al posto del collo, un attimo prima che lo tagliassi.
Ogni volta che osservo una donna dormire al mio fianco, penso alle lacrime di Stefania.
Era solo una puttana che non è rinata dalle sue ceneri, ripeto a me stesso. A volte riesco pure a crederci. Poi mi giro dall'altra parte. E chiudo gli occhi.