| Sock! «Fifteen-love!». Quindici zero. Servizio davvero notevole. E’ tutta la partita che serve in maniera perfetta, senza il benché minimo cedimento. Questa ragazzina ucraina è alla sua prima finale, gioca contro la più titolata campionessa di ogni tempo, eppure non mostra la benché minima soggezione. Sock! Sock! «Fifteen all!» Brava Lena, una reazione da vera leonessa. Pensavo che avrebbe ceduto prima, invece mi tocca tenere ancora in sospeso il titolo dell’articolo di domani: “La Fenice vola ancora alta sul cielo d’Australia’ oppure “La Fenice impallinata nei cieli d’Austalia”. Sock! «Let! First serve». Nastro. Le è andata bene. Manco l’aveva vista. Dopo quindici anni che la osservo giocare riesco a capire quello che pensa anche solo dalla postura che assume tra uno scambio e l’altro. E qui vedo un bel ‘non so a che santo aggrapparmi per pigliare questi proiettili che dovrebbero essere palle da tennis’. Sock! «Thirty-fifteen» Ace. Era destino. Questo è il quarantesimo della partita per la giovane giocatrice dell’est. Comunque vada credo proprio che siamo all’epilogo di una delle più fulgide e longeve carriere sportive di ogni tempo. Non vedremo più quella maglietta così stranamente asimmetrica, una manica lunga e una corta, guizzare da un lato all’altro dei campi di tutto il mondo. Sock! «Thirty all!» Però, dura a morire eh! Del resto rende giustizia al soprannome che io stesso le diedi otto anni fa, ma che a sua volta non le rende sufficiente giustizia: la Fenice. Giovanissima, un’ascesa fulminante, numero uno del mondo a soli diciassette anni, quattro grandi Slam, a ventuno anni medaglia d’oro alle olimpiadi, il matrimonio sempre da numero uno del ranking a ventitré, un figlio ancora con la corona di regina del tennis ben salda sulla testa e poi quella prova, la consacrazione della donna prima ancora che della campionessa. Sock! «Out!» Ah, però! Finalmente! Sta a vedere che forse… Sock! «Forty-thirty!» Mi pareva. Ace di seconda. Questa ragazzina ha personalità da vendere. Una degna erede? Eppure nessuno potrà eguagliare la magia di quella manica lunga che copre il braccio della racchetta. Quindici operazioni, tre anni di riabilitazione, centinaia di ricadute, mai un dubbio, mai una recriminazione, solo tanta determinazione e un immenso coraggio. Il coraggio. Sock! «Deuce!» Non cede. Non molla. Non ce la farebbe nemmeno se lo volesse. Come quella sera in quell’albergo di Parigi, quando le fiamme divampavano e lei correva lungo i corridoi avvolta in una coperta bagnata, con suo figlio di appena due anni stretto tra le braccia, difeso da quelle braccia, protetto dal braccio della racchetta che quelle fiamme avrebbero preso in cambio della vita del bimbo. Sock! «Advantage Zarenka!» Ha l’energia e la sfrontatezza dei suoi diciannove anni questa giovane atleta. Dall’altra parte della rete ci sono invece trentacinque anni di traguardi, talento, esperienza e innumerevoli acciacchi. Quando dopo l’incidente tornò inaspettatamente in campo con quella mise così particolare, con quell’unica manica lunga a coprire le cicatrici sul braccio destro, dopo che ebbe vinto il primo match a tre anni di distanza dall’ultimo disputato, preso dall’entusiasmo titolai avventatamente il mio articolo ‘la fenice risorge dalle ceneri’, accorgendomi solo a rotative avviate dell’atroce indelicatezza. Sock! «Deuce!» Troppo tardi, ormai per il mondo lei era e sarebbe sempre stata La Fenice. Sock! «Advantage Fenice!» Per l’appunto. A volte succede anche a me di chiamarla amichevolmente Phoenix. «Matchpoint!» Matchpoint? Occavolo! Sock! Lo scambio si prolunga. Sock! L’avversaria la sposta da una parte all’altra del campo. Sock! La vuole sulle ginocchia entro i prossimi venti secondi. Sock! E dopo averla messa fuori equilibrio, scende improvvisamente a rete. Sock! Passante fulmineo. «Game, set, match, La Fenice, two sets to one, six-four, four-six, five-seven!» Lei è a terra, sdraiata sulla schiena guarda il cielo azzurro e anch’io istintivamente guardo in alto come se da lassù mi aspettassi di vedere qualche essere divino scendere a incoronarla regina del tennis di ogni tempo. Vabbe’, anch’io sono maturato a sufficienza in questi anni per non scrivere una tale cazzata nel mio articolo.
Scendo la scalinata per andare in sala stampa e ci incrociamo nel corridoio. Mi abbraccia, l’abbraccio, lei piange. «E’ finita» mi dice. «Cosa, la partita?» rispondo. La gente intorno passa e ci accarezza, esulta, ci fotografa. I suoi occhi nei miei sorridono, pur imperlati di tristezza. «Non essere troppo cattivo con le domande in conferenza, se no a casa te la faccio pagare» e corre via. Nostro figlio a casa starà saltando dalla gioia sul divano nuovo.
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