| — Ti prego non lo fare. Tecmessa afferra il polso di Aiace. — Pensa a me, pensa a nostro figlio. Lui abbassa la mano, posa la spada a terra. — Ti prego. Gli accarezza il viso. Quante volte lo ha fatto prima, per accoglierlo di ritorno dalla battaglia? Lo invita a seguirla. Con la spugna che viene dal mare e l'acqua calda gli toglie di dosso il sangue e la polvere, come mille altre volte, felice che quel padrone così alto e bello e nobile sia ancora vivo. Fuori piove. Una pioggia fredda, preludio d'inverno, che invita a rimanere al caldo, sotto la tenda. Lo spoglia. La spugna emana vapore, è piacevole da tenere in mano e gli strappa finalmente un sorriso. Lui la tira a sé e lei gli accarezza i capelli. — Li senti, Tecmessa? Ridono di me. Tutto l'esercito ride di me. Il grande Aiace ha sterminato un gregge di pecore! Si stringe le labbra. Quale dio può averlo ridotto così? Gli accarezza il collo e le spalle, dove l'armatura ha lasciato una zona più chiara sulla pelle abbronzata. Distoglie lo sguardo: non vuole che lui la veda piangere.
Le ricorda, Tecmessa, quelle pecore sgozzate. E ricorda di aver pensato che fosse tutto finito, che la mente di Aiace se ne fosse andata. Lo vede ancora mentre accatasta i corpi e li chiama per nome, uno per uno. E se chiude gli occhi, non può scacciare l'immagine di lui che trascina un montone, lo costringe a terra, gli lega le zampe e gli porge una coppa di vino, chiamandolo col nome del re. — Ti piace bere, Agamennone? Ti piace la tua gloria, costruita sul nostro sangue? I belati della povera bestia terrorizzata e Aiace che le versa a forza il vino in gola. — Quante volte ti ho salvato la vita? A te, a tuo fratello e a tutto l'esercito, ed è così che mi ringrazi? I pugni contro il muso e le costole del montone e i volti dei soldati, incapaci persino di intervenire di fronte alla ferocia del loro comandante. — Adesso guardalo il tuo esercito! Un solo giorno mi è bastato per distruggerlo! Ora ne sei convinto che sono io il più forte e il più meritevole? E poi, la spada che si abbatte sulla testa dell'animale e Aiace, in ginocchio, coperto di sangue e terra, che perde i sensi e si affloscia di lato.
— Mi hanno condotto alla pazzia, capisci? Aiace si alza. Tecmessa lo abbraccia, non può lasciarlo andare. — Hanno voluto che io impazzissi, hanno pregato gli dei perché succedesse. È la loro invidia che mi costringe. Lui si china e raccoglie la spada da terra. Gli si butta al collo e lo bacia. Lascia che le mani scendano fino alle natiche, vuole essere per lui quel sollievo che è stata tante volte, e che lo convincerà a desistere. Ma la respinge. — Ricordami com'ero, Tecmessa. Non come mi hanno fatto diventare. Aiace si appoggia la spada al ventre e la tira a sé. Nessun nemico era mai arrivato a tanto. Cade a terra e lei si inginocchia accanto a lui. Prende la spugna e lava via il sangue. Come ogni giorno, quando il suo signore torna dalla battaglia; e poi, ripulito e rifocillato, la vuole una volta ancora nel suo letto.
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