Estinzione
La sera del nono giorno di digiuno la porta della cella si aprì e un monaco comparve sulla soglia.
«Sono quasi le sette», disse.
Ana annuì.
«L'attendo nel corridoio».
Quando la porta si richiuse, la ragazza si alzò dal letto e andò allo specchio. Lasciò cadere la veste e guardò le spalle leggermente asimmetriche, i piccoli seni, la pancia un po' sporgente. Il digiuno avevano accentuato la sua magrezza, ma si sentiva in forze. Soffermò lo sguardo sui piedi, le cui dita un po' storte l'avevano a volte fatta sentire a disagio. Poi puntò gli occhi nei propri occhi, due pietre grigie nel volto allungato, come a volervi infondere coraggio. Era l'ora di farla finita con chi la voleva diversa da com'era. Era l'ora di smetterla di fingere. Socchiuse gli occhi e inspirò profondamente.
«La Sala delle Maschere. Adesso deve proseguire da sola», disse il monaco.
Ana appoggiò una mano sulla maniglia, chiuse gli occhi e aprì.
Centotrentasette facce di uomini e donne di ogni età. Ognuna faceva bella mostra di sé fissata alla sua tavola di legno appesa alla parete. Ognuna esprimeva una sfumatura diversa di terrore e annientamento. Erano coloro che avevano rinunciato al loro Io. Aveva ventisette minuti, tanti quanti i suoi anni, per osservarli, poi la campana l'avrebbe avvertita.
L'ultima porta si richiuse alle sue spalle. Si trovò in una sala circondata non da pareti ma da colonne, oltre le quali si vedevano le montagne innevate che circondavano il monastero. Il freddo scivolò in ogni cellula del suo corpo e Ana si strinse nelle braccia.
«Non serve difendersi. Il gelo che senti non è quello esterno».
Non si era accorta dell'uomo alle sue spalle. Era quello il maestro? Non era come se l'era immaginato. Alto non più di un metro e mezzo e completamente calvo, la guardava con occhi vuoti. Indossava una tunica color porpora e si appoggiava a un bastone.
«Sei pronta?»
Ana fece sì con la testa.
«Bene. Diamo inizio all'Estinzione».
Zero sollevò il bastone e prima che la ragazza se ne rendesse conto le colpì il punto in mezzo alle sopracciglia, quello che i monaci chiamavano occhio celato.
Ana sentì una scossa attraversarle le membra e cadde in ginocchio. Zero afferrò con una mano il suo viso.
«Questa faccia è ciò che il mondo degli uomini ha fatto di te. Sei pronta a lasciarla andare?».
«S-sì», balbettò Ana mentre in realtà era invasa dalla paura.
«Bene».
I suoi occhi impiegarono qualche attimo per adattarsi alla luce. Era il giardino in cui giocava da piccola. I suoi genitori erano con lei, le accarezzavano il volto. Lodavano le virtù della loro bambina, dicevano quanto era bella. D'un tratto la loro espressione cambiò, iniziarono a guardarla con diffidenza e disapprovazione. Il padre indicò i suoi lineamenti e disse che non la riconosceva più.
Avvertì una fitta di dolore in un punto nelle profondità del ventre e le viscere sembrarono incendiarlesi. Poi il fuoco divampò in tutto il suo corpo fino a concentrarsi nella faccia, sulla quale la presa di Zero si fece sempre più intensa e dolorosa.
Era nella grande piazza centrale della sua città, dedicata a Maru, la dea delle onde. C'erano i festeggiamenti in onore della dea. Lei camminava in mezzo alla folla, attratta dalla frenesia che sentiva intorno a sé. Poi tutto intorno sembrò congelarsi e divenire distante. Nello stesso momento tutti i presenti si voltarono verso di lei e presero a fissarla. Ana si fermò, come paralizzata.
La faccia continuava a bruciare.
«Com'è?», le sussurrò Zero nell'orecchio.
Si ritrovò in una stanza che sapeva di avere già visto ma che non riconosceva. Era rannicchiata su una sedia e davanti a sé, in piedi, vide sé stessa, con la testa reclinata e la faccia semi coperta dai capelli. D'un tratto l'altra Ana alzò lo sguardo su di lei, uno sguardo senza confini come l'oceano, che le penetrò nella pelle e si diffuse in lei come un vento mortifero. Era realmente nuda, totalmente vista, interamente fatta di una vulnerabilità perfetta.
Zero strappò via la mano e le mostrò la sua faccia sollevandola come un trofeo. L'espressione era rimasta fissata all'istante massimo del suo annientamento.
«Benvenuta, sorella nell'Estinzione».
La ragazza non capì la sensazione che le si agitò in corpo ma senza potersi trattenere scoppiò in una fragorosa risata.
Non sapeva più tenere il conto del tempo, e per questo non avrebbe potuto dire se dal giorno dell'Estinzione erano passati due mesi o due anni. Sedeva sul ciglio di una strada e intrecciava sandali, sorridendo a chi si fermava a scambiare due parole. Come ogni giorno ringraziava di non essere più niente.