| Arrivo all'appuntamento in leggero anticipo. È una delle poche volte, forse l’unica. La sala d’aspetto è piena, mi siedo e attendo. Non ho molta voglia di parlare, meno del solito, e tengo gli occhi bassi per farlo capire anche a chi mi siede vicino. Parlo sempre poco; in compenso, penso molto. Troppo. Da qualche giorno mi chiedo che sogni avesse mio padre. I sogni sono il mio chiodo fisso, ultimamente. Per carattere e per educazione ricevuta, sono sempre stata abituata a pensare che nella vita avei dovuto accontentarmi, accettare quello che veniva, difenderlo e lavorare duro, come una formichina operosa. Nella mia famiglia, sognare era considerato sciocco: non portava nulla di buono, tanto meno un lavoro. Quando vivi così, arrivi a sera che non sei felice e non capisci perché. Io l’ho capito quando mio padre è morto all'improvviso, un paio d’anni fa. Ma poi l’ho dimenticato, di nuovo. Mio padre era una persona silenziosa. Lavorava sempre, parlava poco e pensava molto. Come me. Eravamo così uguali, che non ci capivamo: troppo occupati a fare la nostra vita, chiusi nei nostri mutismi, per ricordarci di essere felici. Quando è morto, non ci parlavamo da due mesi, e non so nemmeno perché. Ora capisco che c’era un mondo in lui che io non conoscevo. Che sogni avevi, papà? Quanti ne hai realizzati? Sono uno di quelli? Io ne ho tanti da recuperare. Devo rifarmi dei sogni perduti, prima che sia troppo tardi. Chiamano il mio nome. Entro e saluto con un sorriso tirato. Lui abbozza una risposta, ma non ne sono sicura. Non mi importa: non l’ho scelto per la simpatia. L’ho scelto perché è bravo. Ha la mia cartella tra le mani: tutta la mia vita. Sento appena quello che dice. Il mio cervello è un setaccio che non trattiene le parole che soffia senza guardarmi. Ne sta cercando solo una e quando finalmente la trova, la trattiene per un tempo che sembra dilatarsi. Negativo. Il mio cuore fluttua, mi sale in gola, mi esce dagli occhi in lacrime che non mi rendo nemmeno conto di spargere sulla scrivania immacolata del dottore. Tutto il resto è già dimenticato. È niente. È altrove. Sono fuori e non so come ci sono arrivata. Il sole scalda, finalmente, dopo giorni, settimane, in cui il mio corpo non riusciva più a sentire nulla, perso nella contemplazione della sua fine. La fine c’è stata, ma diversa, ed è già un nuovo inizio. Le dita affondano nella tasca e pescano il biglietto che ho scritto per me stessa, che avrei letto comunque fosse andata, per non dimenticare, questa volta: non voglio più scordare che l’unico dovere che ho verso me stessa è essere felice. Lo leggo e non piango più. Sorrido e sono grata.
Voglio che la mia vita sia un canto per il mondo e intendo sgolarmi fino a non avere più voce.
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