| Tirano, gridano, barcollano. Se cadono avanzano carponi.
Penombra, pareti di roccia, l'eco dei passi. Non c'è altro. «Un volta ho letto un racconto». «Tipo?» «Tipo che c'era un tizio, su un treno che entrava in una galleria e correva sempre più veloce e il tizio comincia a pensare che dovrebbero essere usciti, e invece stanno ancora dentro». «Ah, che libro è?» «Roba di scuola, poi ce lo ha spiegato la prof». «E com'è che finisce?» «Finisce che non finisce, il tunnel va sempre avanti. Il treno non si ferma mai, però corre sempre di più. Dopo un po' il tizio capisce che c'è qualcosa che non va e comincia a dirlo agli altri, ma non lo caga nessuno. È sicuro che non ci sono gallerie così lunghe. La prof ha detto che è una metafora».
Uno calcia, affidandosi al bagliore bianco che separa i pentagoni neri. Poi comincia a contare: più singhiozzi numerati, che voce.
«Aspetta, sta' un po' zitto». Fausto e Felice si fermano. Un rumore, una sorta di vibrazione. Un fruscio sembra scorrere dietro la parete, alla loro sinistra. Il sollievo s'impadronisce di un sospiro. Forse un automobile? Che sia vicina una strada? Fausto azzarda un palleggio, nervoso. Il pallone fa rimbombare tutto, gli sfugge di mano e rimbalza via, inghiottito dal buio. «Coglione!» «E vabbè, vado a riprenderlo», replica l'altro, ma non si muove. Si prendono per mano. Non si vergognano più.
L'altro rincorre i rimbalzi, si inginocchia, prosegue a tastoni, si guarda in giro fino a sentire la sfera liscia sotto il palmo, o a volte sfuggirgli via, sfrontata.
Quanto tempo è che camminano in quella galleria? Mezzora? Un'ora? Sono entrati per curiosità, hanno continuato per sfida e cocciutaggine. Non si sono persi - non ci si perde in una galleria scovata dietro casa - ma non riescono a tornare indietro. Secondo Felice, a forza di camminare, hanno fatto più di cinque chilometri, Fausto non gli crede, per lui sono anche di più. Proseguono, gli sguardi bassi per intercettare il pallone, poi uno dei due alza la testa. «Guarda! È la fine!» Un oblò di luce li osserva, in lontananza. Cominciano a correre.
Trovata! Grida, e ci aggiunge un Aaahhh, un Cazzo, una bestemmia. Chiede quanto, fa la somma con ciò che aveva tenuto a mente.
«Il mio è andato». «Il mio quasi e nessuna tacca. Se lo spengo non si riaccende più». Hanno tolto il cellulare di tasca con un unico gesto, istintivo. Da un po' non lo usano, per farsi luce. Il tunnel è sempre uguale: pavimento liscio, in cemento, ma potrebbe essere terra pressata, così come le pareti. Nessuna biforcazione, solo curve. A volte, dopo alcune, scorgono un cerchio di luce, l'uscita. Corrono e il chiarore via via sbiadisce, si dissolve. La fine non arriva mai.
Quando è sicuro di avere fatto bene i conti, urla il risultato. Poi appoggia il pallone, prende la rincorsa. I ruoli si invertono.
Sono seduti. Hanno fame. La gola è fuoco vivo. «Senti…» «Sì?» «Ti va di giocare?»
Cade, dopo quel tiro, non ha più forze per contare. Disteso nel buio attende l'altra voce, ma nessuno parla più.
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