@tetra: eh sì, è da un po' che non ci si incrocia. Alle volte le strade si separano, ma a lungo andare possono anche tornare a convergere, no?
Grazie per il commento, lieto che il racconto ti sia piaciuto!
@ceranu: grazie anche a te. È vero, i bambini sanno essere molto più cattivi di quanto io abbia tratteggiato. Ma la mia idea, una delle cose che volevo far passare (ma su questo ci torno anche dopo), è che gli insulti più normali non toccano Katia perché, a differenza di "daun", sente dirli anche ad altri. "Daun" solo a lei.
@simolimo: be', certo che mi si può chiamare ancora ken, non vedo perché no!
Ovviamente il gusto personale non si discute e mi rendo conto (per quel poco che so dell'argomento) che il racconto possa apparire un filo irreale, specie per come va a finire. Ma questo cozzerebbe un po' con l'osservazione di poca originalità, credo, no?
Grazie anche per le osservazioni tecniche, anche se sono d'accordo solo sulla rima (che, mannaggia, mi era proprio sfuggita!). Un appunto sulla domanda che dici essere più dell'autore che non del personaggio: Katia non capisce il perché di alcune sue reazioni, e vorrebbe dimostrarlo anche la riflessione su stomaco in subbuglio e innamoramento, per quello si pone lei la domanda.
In compenso, rileggendolo, ho trovato una proliferazione di "lui" per la quale mi sto prendendo a martellate sui malleoli...
@yaranilde: grazie!
@sallow: e grazie anche a te. La tua interpretazione è in larga parte corretta, il padre ha cercato di suicidarsi (o la madre pensa che sia così, motivo per cui a Katia sembra ce l'abbia con lei) perché non ce la fa più. Si strugge, lui, solo dopo l'episodio con Gianni, perché quella volta Katia arriva in lacrime a casa ed è la goccia che fa traboccare il vaso. Tra l'altro, probabilmente non si capisce, ma i primi due pezzi sono legati tra di loro e la "maschera di dolore" del padre è quella che descrivo nel primo pezzo.
@roberto:
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Ottimo stile, frasi brevi e precise. È un argomento difficile da affrontare senza ripetere alcuni cliché che sono molto comuni in questi casi. Il risultato rischia di essere una sensazione di “già visto”. Ad esempio, gli elementi del racconto non sorprendono. Dal momento in cui apprendiamo che la protagonista è daun, ci sono delle parti che diventano molto prevedibili, come il rifiuto di Gianni. Lo si vede arrivare molto prima di concludere il paragrafo. Anche il finale non riesce a risollevare il racconto come dovrebbe. Detto questo, è appunto un argomento difficile e riuscire a presentarlo in modo innovativo non è facile. Però allo stesso tempo il difetto rimane.
Ecco, qui, come anche per altre osservazioni, entra in gioco il non essersi fatti capire, che per un racconto (o simile) è sempre colpa dello scrittore. Il fatto che tu ti concentri sulle cose prevedibili (per lo più volutamente prevedibili) e non su quello che significano e sulle conseguenze, inusuali (come evidenziato da Simolimo) e a lungo andare estreme, anche se tramite un meccanismo un po' da Rube Goldberg, è un difetto mio in quanto autore. Probabilmente avrei dovuto stare più attento al contenuto e meno alla forma e alla struttura. Ne terrò conto per la prossima volta, grazie mille!
@master_runta:
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Ciao Luca, bentrovato.
Il racconto lo devo per forza valutare da due punti di vista differenti:
Il primo è quello della scrittura che, a parte un paio di sbavature, scorre liscia e senza particolari apprensioni o perplessità da parte del lettore.
Non mi è molto piaciuta la lente/filtro che hai usato nelle parti della ragazzina. Tematiche come quelle affrontate, lette attraverso uno stile e un pdv tanto infantili non mi ha affatto convinto. Ha incrementato il distacco emotivo, invece che calarmi nella storia. Immagino che l’intento fosse quello di sfruttare la reazione umana di fronte a una tragedia che riguarda un bambino, il tipico “aaawww” iniziale per poi assestare il cazzotto del “colpo di scena” finale. Ecco, con me non ha molto funzionato. Perché nel linguaggio e nel pdv ho scorto le tracce di tutto ciò e quindi a riga 3 avevo già fortissimi sospetti su come sarebbe finita la storia.
Sempre riguardo lo stile scelto, ti segnalo la frase della “nuvola grigiastra di silenzio imbarazzato”, credo stoni molto, si passa da costrutti semplici e infantili a un “gioco di prestigio” retorico che poco ci azzecca col resto.
Comunque, al di là di quanto segnalato, la scrittura è liscia e senza evidenti increspature, discuto la scelta dello stile, non come poi lo hai reso.
L’altro punto di vista per cui devo fare un discorso diverso è quello dei contenuti, che è molto più soggettivo. Io odio visceralmente le scelte di tematiche come quelle che hai scelto tu, narrate attraverso la lente che tu hai scelto. Sono le classiche storie d’autore fatte per essere drammi, all’interno di drammi, all’interno di altri drammi, delle matrioske di drammaticità.
Io faccio sempre l’esempio del bambino handicappato che vive in una casa col padre ubriacone manesco e la mamma prostituta eroinomane, che va in chiesa a cercare aiuto, finendo tra le grinfie di un prete pedofilo superdotato. Poi a un certo punto trova un cagnolino che rappresenta l’unico spiraglio di speranza nella sua vita, ci ripone tutti i suoi buoni sentimenti, ma subito il cane muore di una malattia degenerativa che lo fa soffrire come se non ci fosse un domani… eccetera…
L’esempio è ovviamente un’esagerazione, ma credo chiarisca il punto. Ci sono modi e modi di raccontare drammi, spingere forzatamente sull’empatia e sulla disperazione è, a mio modo di vedere, quello sbagliato.
L’altro esempio che porto sempre è che se in Italia decidono di fare un film su un bambino handicappato fanno quello che ti ho descritto prima, altrove fanno Forrest Gump.
Per me le matrioske funzionano solo con le esplosioni… quindi esplosioni, dentro altre esplosioni, dentro altre esplosioni, e così via all’infinito.
Un altro aspetto che ti faccio notare è che la tua bambina protagonista è tutta buona, non che non sia possibile, ma contribuisce a “far mangiare la foglia”, perché sembra fatta apposta per massimizzare l’effetto del suicidio finale.
Quindi, per tirare le somme, il mio giudizio è buono, il racconto funziona… il brano, per i motivi di cui sopra, non mi è piaciuto ma questo non lo rende affatto un brutto lavoro.
Ammazza, Marco, ti ho addirittura provocato odio viscerale? Gosh... non era mia intenzione!
Una cosa te la posso dire però: questo racconto non è stato assolutamente scritto con il presupposto "adesso faccio una storia d'autore", perché è quanto di più lontano dal mio modo di essere e di scrivere. La presunzione di chi parte migliore degli altri calando dall'alto il proprio genio (vero, presunto o mutuato) la lascio a chi ha tempo da perdere per farsi bello/a. Avrei voluto emozionare, quello sì, e non nego che con ogni probabilità mi è un po' scivolato il piede sul pedale, rendendo tutto magari un po' forzato. Se ci incontreremo di nuovo, spero di poterti far leggere qualcosa di tuo maggior gradimento!
@simoncarlo1:
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Questo racconto è un vero pugno nello stomaco: stravolge, commuove, fa arrabbiare, sorprende. Il punto di vista scelto è originale, di certo non facile da gestire, ma Luca riesce nell’impresa con semplicità ed eleganza. Il dramma finale è raccontato con una naturalezza impressionante, le parole sono scelte con cura e mai banali. In sostanza si tratta di un racconto notevole, per stile e tema trattato.
Da un estremo all'altro: grazie mille, Simone! Come ho scritto a Marco (master_runta), forse ho un po' esagerato. La prossima volta, se mi verrà da cimentarmi con un argomento simile, proverò a moderarmi di più.