Soli
«Non voglio sentire». Elena si abbracciava le gambe, ginocchia contro il petto, come per difendersi dal mondo. O sottrarsi da esso. Dal mondo, o da me.
«Il tuo cazzo di muro sanguina sempre!» Le mie parole non mi appartenevano. Voglio dire: uscivano dalla mia bocca, okay, ma era la rabbia a parlare. Un fuoco in gola. «Di sera finisco per farmi le seghe da solo a letto mentre tu dormi. Ci diciamo a malapena ciao. Mi spieghi che diavolo di relazione è questa?»
«Se ti sei stancato, vattene, semplice». Non mi guardava. E, a essere onesto, le ero grato che non lo stesse facendo, perché altrimenti avrei taciuto come avevo fatto per tanto tempo, assecondandola, portando pazienza ancora un'altra sera, un'altra settimana, un altro mese, un altro anno. «Il muro è mio, non tuo. Se voglio farlo sanguinare sono cazzi miei».
Prima di Elena c'era stata Cristina.
Cristina e il cancro che si portava dietro ovunque, nel carrellino della spesa. Oggettivare il suo male le aveva salvato la vita.
Sarò onesto: a me non dava fastidio, anche se ci toccava spendere cinquanta euro a settimana per nutrirlo. Ma mi incuriosiva, quello sì. Forse era proprio la curiosità che suscitava in me a renderla attraente.
«Perché lo fai?» le domandai una volta. «Perché non lasci la tua malattia a casa, come fanno tutti?»
«Sei stronzo».
Mi scappò un mezzo sorriso. «Stronzo perché, scusa?»
«Per come me lo domandi».
«Lo sto facendo come tutti, no?»
«No: la gente di solito me lo domanda in modo diverso». E si tolse di mezzo. In ogni senso. Alzò il suo bel culo dal mio divano e sculettando uscì dalla mia vita, portandosi dietro il suo cancro, con le protuberanze affamate che pendevano dai bordi del carrello come le frange di una sciarpa imbevuta di sangue.
Il perché si offese lo capii solo anni dopo.
«La tua malattia è un tentativo di ottenere quello che vuoi» sbottai, mentre Elena continuava a guardare qua, là, ovunque. Poi si voltò a fissare finalmente me, solo un istante, il tempo necessario a scandire la frase : «E cosa credi che voglia?», trafiggendomi l'anima con quegli occhi arrossati, lucidi, con tutta l'agonia autoindotta che contenevano.
Due cosce che ti facevano dimenticare tutto. Ti facevano desiderare di averla, di sentirle stringerti forte come se avesse paura di perderti mentre ti muovevi dentro di lei, se non altro in quel momento, anche se per il resto del tempo invece ti sfuggiva. E anche quando non facevi l'amore ci passavi sopra la mano, sentendole calde, vive, sentendo le ferite fresche.
Elena si tagliava.
A volte le persone che oggettivano il loro male finiscono per identificarsi con esso, dicevano gli psicologi televisivi.
Grazie al cazzo, mi veniva da rispondere.
Una pillolina magica per rimediare però non ce l'avete?Ogni taglio si traduceva in una ferita sul muro.
Tagli che non diventavano mai cicatrici. Dopo poche ore sparivano. Le sue gambe tornavano lisce, immacolate, bugiarde.
Perché Cristina, la mia ex, si portava dietro il tumore, vi chiederete? La risposta? Perché aveva bisogno dell'empatia delle persone, mentre io le avevo dato solo qualche scopata alle quattro del pomeriggio e una domanda che non avrei mai dovuto farle perché la risposta avrei dovuto già conoscerla. Per questo se ne andò.
Perché Elena, invece, continuava a farsi male?
«E cosa credi che voglia?» ripeté.
«Che io smetta di farti sentire così sola» le risposi.
E lei tacque.
Potevo sentire il suo respiro, il mio, l'orologio da muro ticchettare indifferente a tutto.
Il suo sottrarsi a me, il suo tagliarsi, erano provocazioni, gridi di disperazione. Di aiuto.
Allungai una mano.
Lei sorrise.
Si alzò.
Mi diede le spalle.
Mi guardò dalla cucina, ancora sorridendo, mentre col coltello si tagliava la gola.
Federica guardò il muro, passando l'indice sopra il sangue incrostato. «A chi apparteneva?»
«A Elena».
«L'amavi così tanto da lasciarlo così?» La ferita alla gola non si era rimarginata in tempo. Sulla parete ne compariva solo un accenno.
«Sei sana?» le feci io.
Federica aggrottò la fronte: «Te l'ho già detto: sì. Che c'entra con la mia domanda?»
«Lo ero anch'io» le dissi, mostrandole poi il nuovo muro sanguinante della casa. Il mio. «Non voglio più sentirmi solo».
La sua risposta fu uno sguardo ebete.
La mia parete, anche quella notte, avrebbe continuato a sanguinare.