| La Grande Moria Alexia Bianchini
Selen si trascinava lungo il corridoio. Le pareti pesavano su di lei. Il respiro affannato. Ogni passo saturo di dolore. «Crepa, bastarda!» le disse Josephine, la vecchia del reparto. Selen si voltò di scatto, gli occhi fuori dalle orbite, la mascella spalancata a volerla ingoiare. Lanciò un grido, le corde vocali tremarono e la megera si mise a urlare spaventata. «Crepa, crepa, lo dico io che devo morire, ma voi stolti non capite un cazzo» farfugliò Selen, la bocca impastata. «Calmati piccola». Marco il caporeparto le andò vicino. Tentò di aiutarla, afferrandole il braccio, ma scatenò solo le sue ire. Come percossa da una scarica elettrica si contorse su se stessa. Del muco schiumoso le uscì dalle narici, poi rigurgitò sulle scarpe del paramedico. Sul volto un ghigno malefico carico di odio. «Non mi toccare più». Gli sputò contro, la voce cavernosa. «Ha la peste nera» gli fece eco Josephine, avvicinandosi all’infermiere e accarezzandolo lasciva. «Se le tocchi la pelle poi muori» gli disse spalancando gli occhi, vittima della follia. «Finiscila Joe» ribatté Marco accarezzando la chioma canuta. «Selen è solo stressata, vedrai che si riprenderà». «Tre morti da quando è qui» continuò la vecchia facendo segno con le dita, «e uno era quel puttaniere di Fabrizio… avrà tentato di scoparsela, te lo dico io, e lei l’ha infettato». Selen aveva proseguito il suo lento e doloroso cammino ignorando ciò che accadeva intorno a lei. Il tremore e la sete erano aumentati a dismisura, sapeva che il momento si stava avvicinando. L’ultima speranza era parlare con il dottor Moreno, forse il solo che le avrebbe creduto. Passò di fianco a folli e mendicanti. In tre mesi di segregazione aveva visto gli spiriti prendersi gioco degli umani, in quelle facce deformate, nelle parole vomitate. Ma il demone più infame era quello che di notte la leccava, che lento insinuava la lingua nelle sue viscere e la scorticava, succhiandole l’anima. Era colui che l’aveva inquinata, masticata e rigurgitata. Aveva la bocca piena di vermi, le orbite vuote e l’odore di morte. La porta nera era a un passo da lei. Trascinò le dita lungo la parete e si aggrappò alla maniglia. Le ossa della mano scricchiolarono poi si bloccarono. La paresi durò qualche minuto, poi sciolta dall’abbraccio del male aprì l’uscio. Il dottore era seduto alla scrivania, davanti al computer. «Quale sorpresa mia cara, accomodati». Era sempre gentile e odorava di buono. Selen barcollò. Non c’era più il muro a sorreggerla. A scatti raggiunse la sedia e ci si accasciò sopra, esausta. La testa girava, sentì un sapore metallico in bocca, poi il sangue cominciò a uscirle dal naso, imbrattando la camicia da notte, già lurida di fluidi corporei. Il senso di vuoto si impossessò della sua mente. Il respiro si fece affrettato, lascivo. Il suo amante infernale stava approdando su di lei. «Non ora». Le gambe si aprirono per accoglierlo. «Non ora» supplicò a vuoto. Il corpo venne scosso da brividi, la schiena si inarcò. Lui era dentro di lei. «Finalmente» le sussurrò lascivo. «Sei pronta per partorire». Un grido di dolore le uscì dalla gola in fiamme. Sentì il fuoco fra le gambe. «Non stai mangiando e continui a fare i capricci per le medicine» le disse in tono paterno il medico come se non si fosse accorto di nulla. «Devo morire» gli sussurrò. «Devo morire subito, sta uscendo, non abbiamo più tempo». Il volto sfigurato dal terrore, le mani fra i capelli sudici e spettinati. «Selen ne abbiamo già parlato, e ieri mi sembrava che fossimo arrivati a un traguardo, no?». Il tono calmo, controllato. «Appesterò il mondo, perché nessuno di voi mi crede?» «Mangia, metti la crema sulle ferite e prendi le medicine» continuò lui, il sorriso di plastica sul volto. «La crema non funziona» gli fece notare allungando le braccia in avanti. Decine di croste le ricoprivano la pelle. Il medicò la guardò di traverso. Un’espressione vera, satura di astio, schifo e disprezzo. Alzò la cornetta e chiamò un infermiere. «Lei non capisce, mi ha messa incinta e ora partorirò vermi». «Guardati, non hai nessun pancione» fece lui. Selen si alzò nel momento in cui Marco fece il suo ingresso nello studio. «Non mi toccare» disse all’infermiere. Una contrazione arrivò improvvisa. Si contorse dal dolore. Liquido caldo le scese lungo l’interno coscia. «Non mi toccare ho detto!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Sollevò il lembo della vestaglia e vide il sangue vivo scorrere lungo il pavimento. «Sta succedendo ora». Iniziò a piangere. «Uccidetemi, vi prego». Mani salde la bloccarono. Sentì montarle dentro la furia, l’addome gonfiarsi. «Ma che diavolo…». Il dottore non finì la frase. Marco mollò la presa. Occhi colmi di paura la fissavano. «Adesso, o non ci sarà più tempo» sbraitò Selen in un ultimo disperato tentativo di scuoterli. Il ventre gravido si tese a dismisura, poi esplose imbrattando di viscere e vermi la stanza. La madre un misero sacco vuoto. La Grande Moria era cominciata.
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