| Erano quattro giorni che non mi alzavo dal letto. Il materasso emanava un odore acre di urina, che si mescolava a quello del mio corpo, un olezzo greve e pesante, misto di sporco e latte. Quel puzzo lo chiamavo amichevolmente “formaggino”. Sorrisi passandomi la lingua ulcerata tra i denti. Il medico la chiamava mucosite. Non capivo cosa centrasse il muco con la bocca, ma in fondo non m’ interessava. Il male era iniziato dai polmoni, a poco sono serviti i vari interventi, si è sempre ripresentato, come un vecchio amico che non vorresti mai ritrovare ma puntualmente veniva a bussare alla tua porta “Ehilà! Ti ricordi di me? Dai sono Cancro o preferisci Tumore? Non siamo formali, pneumoadenocarcinoma non suona bene. Che ne dici? Tanto lo sai che torno e magari porto degli amici” Gli amici arrivarono prima del previsto, li crescevo nella testa e nel fegato come dei figli ingrati. Chissà come stava la mia piccola!? Quando ho allontanato la famiglia potevo leggere il sollievo negli occhi di mia moglie. “Puttana” esclamai in un accesso di tosse sanguinolenta, era stata contenta di liberarsi di questo mezzo cadavere, chissà chi si stava sbattendo adesso. Riuscivo a vederla mentre si fingeva disperata tra le braccia di un altro e insieme a quella piccola stronza della figlia. Per un istante rimpiansi quei pensieri, la testa non era più quella di prima. Beh neanche il resto, in fondo avevo perso quasi trenta chili. Gettai uno sguardo sconsolato al piatto di minestra sul comodino, al solo pensiero del cibo lo stomaco si chiuse in una morsa, e il sapore acre della bile mi salì in bocca. Mi persi nuovamente nei miei pensieri, era l’unica cosa che volevo fare, crogiolarmi nella disperazione e maledire tutti, tutti i sani, i vivi e quelli che avrebbero continuato le loro vite senza neanche sapere che stavo morendo. La porta si aprì con un cigolio sommesso, sbattei le palpebre infastidito dal piccolo spiraglio che andava allargandosi. La figura si stagliava nella luce, i lunghi capelli biondi cadevano morbidi sulle spalle, sembravano ardere come una torcia. Impiegai qualche secondo a mettere a fuoco il viso ovale e gli occhi contornati da del trucco leggero. Nell’aria si diffuse un dolce profumo floreale, che mischiandosi con il mio olezzo richiamava alla mente una camera ardente. Era bella. Giovane e bella… e la odiavo! Odiavo la smorfia di disgusto che compariva mentre mi lavava, lo storcere il naso per la puzza e quel finto, patetico buonismo. “Se ti faccio schifo vattene” volevo urlarle, insultarla, umiliarla, farla sentire una nullità come me. Volevo cancellare tutta quella vita… perché non giusto. Cazzo!! Non ci sarebbero state più passeggiate, abbracci, amici. Chi vorrebbe stare con questo… questo… questo schifo. La osservai mentre armeggiava con le varie sacche che giacevano ai miei piedi, urine e drenaggi vari. Che ci sarà di interessante in quel piscio. I capelli si aprirono come una tenda scoprendo qualche centimetro di pelle candida. Un piccolo ghirigoro spuntava dal collo della maglietta come un rametto d’edera da un balcone. Con la mano afferrai la lampada sul tavolo, il supporto era pesante, forse troppo. Abbassai il braccio con violenza, la base in metallo colpì l’edera. Un urlo. Un semplice urlo e quel viso sbatté con violenza sulla sponda di metallo lacerando la pelle. Tump… tump… tump. Colpii ancora e ancora, finché un accesso di tosse mi strinse il petto lasciandomi senza fiato. Gocce di saliva purpurea sporcarono quei fili dorati che si allargavano sul marmo e un rivolo carminio solcò il pavimento. Mentre la tosse mi squassava rigirai il corpo. Uno sforzo sovraumano. La tosse colpiva duro e il sudore m’imperlava la fronte. Mi sdraiai al suo fianco come un vecchio amante e strinsi le sue dita tra le mie godendo del calore che sarebbe svanito da li a poco. Ora non era più cosi bella. Era come me. Morto con morto, sangue nel sangue. Nessuno dovrebbe morire solo… “Grazie per la compagnia”
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