| Quindici giorni, era tanto che non uscivamo. Trascorrevamo le nostre giornate a fissare il televisore, immobili, in silenzio. L'unica nota allegra delle nostre giornate era la voce argentina di Sofia, la nostra piccola. Lei non si rendeva conto di quello che le stava capitando attorno, era solo felice di passare il tempo con mamma e papà. Per me non era lo stesso, le notizie erano disarmanti, la gente moriva, senza la minima differenza di razza o di età. Noi eravamo scampati a quella piaga, avevamo chiuso il mondo fuori dalla porta. Ma non potevamo rimanere così in eterno, non eravamo auto sufficienti. Il cibo iniziava a scarseggiare. Quella mattina, dopo aver gettato la spazzatura dalla finestra, aprii il frigo. Una bottiglia d'acqua mi fissò solitaria, era l'ultima. Convinto di lasciarla per la mia principessa, recuperai un bicchiere, e lo misi sotto il rubinetto. -”sei pazzo? E se ti ammali?”- La mano di Gloria mi bloccò. Come scosso dalle sue parole feci cadere il bicchiere, che si ruppe in mille schegge lucenti. Barcollai all'indietro tremante, stavo per fare una cavolata, avevo messo in pericolo la mia famiglia. La stretta calda di mia moglie mi fece calmare, avevo ancora tutto quello a cui tenevo di più. Ma per quanto ancora? La piccola Sofia arrivò gattonando e si unì al nostro abbraccio, rideva, per lei era tutto un fantastico gioco. Combattei con me stesso per bloccare le lacrime, dovevo essere forte, ero io il loro macigno. Le carezzai i soffici capelli dorati, mi alzai e andai in camera. Indossai un dolcevita e i jeans, ma mancava qualcosa. Frugai in maniera convulsa tra i vecchi abiti, doveva esserci qualcosa che poteva tornarmi utile. Finalmente trovai i vestiti che usavo per la moto, infilai il sotto casco, i guanti e gli stivali in pelle. Ero pronto. Feci un grosso respiro e partii, ero deciso, dovevo provvedere alla mia famiglia. Passai in sala senza guardare le mie donne, non ne avevo la forza. Gloria mi chiamò, ma io non mi fermai. Arrivai alla porta e armeggiai con le chiavi. La mano mi tremava, avevo paura. Non sapevo cosa mi riservasse realmente l'esterno, ma era chiaro cosa sarebbe successo senza acqua e cibo. Prima che mia moglie potesse raggiungermi uscii. Lei non mi avrebbe seguito, doveva badare a Sofia. Le strade deserte, le auto abbandonate e il silenzio, rendevano tutto surreale. Non avrei dovuto fare molta strada, all'angolo della via c'era un mini market: quello di Cho. L'aria gelida di gennaio entrava attraverso il cotone, squarciandomi la gola. Se mi fossi fermato avrei potuto sentire quei piccoli germi picconare senza pietà. Non la vedevo, ma sapevo che attorno a me c'era la morte. Finalmente arrivai davanti alle vetrine che tanto stavo bramando, mi si fermò il cuore. Vetri rotti insanguinati invadevano l'interno del negozio. Senza speranza superai i cocci, facendo molta attenzione a non toccarli, anche quelli potevano significare la mia fine. Un barlume di speranza rinacque in me, gli scaffali non erano completamente vuoti. Cercai un carrello, dovevo portare via più roba possibile. Sapevo dove li teneva Cho. Guardingo mi avvicinai alla tenda di plastica, un piede dopo l'altro, facendo ben attenzione a quello che pestavo. D'improvviso sentii un sussurro, una voce lontana, flebile. Forse chiedeva aiuto, o forse esisteva solo nella mia mente provata. Mi bloccai, più per la paura che per la curiosità. Tesi le orecchie: non c'era più. Cancellai subito quel ricordo, dovevo andare avanti. In lontananza riconobbi la sagoma di un cestello, mi sarei potuto accontentare di quello per la mia prima uscita. Ma l'immagine della mia piccola Sofia mi comparve davanti, lei meritava il meglio. Quello fu l'ultimo pensiero lucido. Qualcosa mi afferrò per la spalla, spaventato mi ritrassi sbilanciandomi e finendo a terra. Prima dell'urto col suolo sentii un forte dolore alla nuca, poi il buio. Non so quanto tempo passò, minuti, ore. Attorno a me c'erano rumori, vita. A fatica riaprii gli occhi, la testa mi faceva male, e potevo distinguere in bocca il sapore acre del sangue. Una figura sfuocata mi si parò difronte. ”Stai bene?” Quando il volto che avevo davanti divenne nitido, il cuore mi si fermò. Era calvo e pallido, aveva occhi rossi e croste nere sotto le narici. Era infetto. In preda al panico lo spintonai e iniziai a correre, superai gli scaffali e saltai fuori, e ancora più veloce verso casa. Qualcosa non andava, sentivo il vento in faccia. Portai la mano alla bocca, non c'era più il passamontagna. Quel coso mi aveva toccato. In lacrime arrivai fino al portone di casa, mi voltai per vedere se mi aveva seguito, non c'era. Allungai la mano verso la maniglia, non era possibile. Impietrito guardai l'uomo riflesso nella vetrata, ero io, ma diverso, senza segni evidenti, eppure potevo vedere il virus in me. Mi voltai e iniziai a camminare, senza una meta, senza una speranza. Lontano sentii la voce di Sofia, rideva, lei rideva sempre.
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