| La sveglia le sturò i sogni dalle orecchie. Lea sbatté una mano sul comodino e afferrò il cellulare: erano le sette, doveva alzarsi. Si girò faccia in giù sul cuscino e vi sfregò la faccia. Sentì un leggero dolore. Si tirò su a sedere, l’indice a tastare il mento in un moto circolare. Più il dito insisteva, più lei si crucciava. L’aveva imparato a catechismo: beati quelli che pur non avendo visto crederanno. E Lea credeva eccome a quel che sentiva, ma non per questo si sentì certo beata. Anzi. Si fiondò in bagno a occhi sgranati. Accese la luce, agguantò lo specchio ingrandente, lo posizionò sulla mensola sopra il lavandino, si protese in avanti e fissò. Lo vide lì, ben visibile, grande e purulento, sintomo di stadio finale. La pelle intorno rossa e gonfia. Paranoie. Insormontabili paranoie. Mo Lesta, coinquilina cinese dal cognome italiano, le si piazzò sulla spalla come una scimmia: “Uh… Lea? Ma è enolme!” Lea precipitò in un abisso. “Mah… vai al lavolo, cala?” le chiese Mo con sguardo incerto. Lea annuì, labbra tirate e fronte aggrottata. Mettere un cerotto e inventare una qualsiasi scusa non sarebbe stato certo credibile. Forse indossare un maglione a collo alto e tenere la parte inferiore del viso coperta, però, sarebbe sembrato che un martello gigante le avesse piantato il cranio nel tessuto. Non era la scelta giusta. Gli occhi allungati di Mo si incrociarono ai suoi su quell’unico punto di interesse: “Potlesti cololallo di nelo e fingele un nuovo neo!” Lea non le rispose, ma ci pensò. “Oppule… potlesti indossale un bulqa e proclamalti mussulmana!” Decidere. Decidere in fretta. “Schiacciale e allalgale, così scliveva il dottole in quella livista pel adolescenti dal pallucchiele!” Lea guardò Mo di sbieco. Poi, la faccia tonda sbiadì e l’attenzione fu tutta per il grosso colletto di pizzo che la incorniciava. Guardò Mo. Guardò il colletto. Riguardò Mo ed esclamò: “Colletto! Ma celto!” Diede un bacio in fronte all’inquilina e corse a prendere il correttore. Le sarebbe bastato un piccolo strato, e un po’ di cipria: un lavoro da esperta. Però la pelle in quel punto sarebbe apparsa spessa e finta e le colleghe l’avrebbero osservata con un sorriso complice. L’autostima tornò a vacillare, le paranoie a farsi largo. Poi l’idea: tenere tutto il giorno la mano sul mento, con fare pensieroso e sguardo miope, come gli intellettuali nelle foto dei libri. Aveva deciso. Era quasi pronta quando il campanello la fece sobbalzare. Chi mai poteva essere a quell’ora? Saltellando dalla camera all’entrata su un piede mentre infilava l’ultima calza, domandò: “Chi è?” “Sono Cho!” Aprì di scatto, mano sul mento e sguardo intelligente. “Uh… al lavolo anche di sabato!?” le chiese l’amico di Mo con fare sbalordito. Sabato?! Come aveva potuto sbagliarsi? Salutò con un sorriso Cho e si precipitò in bagno. Lo specchio era già in postazione, la luce accesa. Si guardò con occhi da leone, inspirò e inchiodò lo sguardo sul punto X. Il viso cominciò a deformarsi, gli occhi si socchiusero, le pupille si incrociarono, la lingua uscì dal lato della bocca, le dita raggiunsero il mento, la pelle e il pus si espanse. Prese un batuffolo di cotone, ci mise del latte detergente e mentre puliva il misfatto pensò: addio palanoie.
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