| Virginia sulla collina
«Viginia, non farlo mai più.» «Ma, mamma. Ormai ho più di cinque anni.» La bambina lasciò smorzare il lamento nello sguardo severo della donna che, con i capelli scomposti sul volto e il solito grembiule verde ormai malconcio lungo il corpo esile, quella sera le pareva invecchiata di cent’anni. Era triste, Virginia, quella sera come altre. La casa sulla collina, di pietre e legno marcio, coperta da canne e muschio a formare un cielo pronto a cadere per schiacciarla di notte, era come una gabbia per un uccellino. Aveva voglia di libertà, di corse nei campi, di lunghi viaggi, di sole e di aria fresca. «Lo sai che la gente è cattiva, vero? Lo sai che non devono vederti, che non devono sapere neanche che esisti?» Virginia abbassò gli occhi sul piatto di radici; il sapore dolciastro di quella cena le faceva venire il voltastomaco. Il camino scoppiettò per qualche attimo, poi tornò a bruciare quieto l’ultima legna del giorno allontanando per un po’ il freddo che comunque avrebbe invaso la casa al pari della notte. La donna guardò preoccupata la nuvola di fumo danzare per un attimo sulle fiamme e lasciarsi inghiottire dalla canna fumaria. La libertà. Virginia pensava alla libertà, anche quella sera. «Quando finirà?» chiese grattando via la terra dal suo pasto. «Non lo so. Prima o poi dovremo andare via anche da qui, temo. E non so quando né come finirà.» Qualcosa agitò per un attimo il suo sguardo. Si guardò intorno, iniziò a tremare. «Cosa succede, mamma?» chiese Virginia impaurita. Poi sentì le voci, lontane, ma tremende. «Diosanto, Virginia», sua mamma era balzata in piedi in un solo battito di ciglia. «Che succede?», balbettò la bambina. La donna la prese e la portò verso il letto di paglia sulla parete di fondo. «Nasconditi dietro il letto e resta immobile e in silenzio. Ricordati, tu non esisti.» Virginia udì le voci farsi più vicine. Cantavano, là fuori. Una nenia tremenda, una specie di preghiera in una lingua incomprensibile. Iniziò a piangere, ma non ebbe la forza né la voglia di contraddire sua madre. «Non ti muovere di là, qualunque cosa accada», anche la donna piangeva. Eppure riusciva perfettamente a parlare, a ragionare, a sapere cosa andava fatto in quel momento. «Aspetta l’alba e, con la luce del sole, scappa verso nord. E stai lontana dalle città, almeno per qualche giorno. Cammina sempre, Virginia, e non tornare mai più su questa collina.» Bussarono alla porta. Erano dieci, cento mani. Virginia, sotto la paglia, temette che davvero il cielo di canne quella notte sarebbe venuto giù. Sentì i passi di sua madre, sentì aprire la porta, sentì le urla, il frastuono, i lamenti. Poi il silenzio e, nel silenzio, udì la voce. «Ginevra Canestrei, ammetti di avere brigato con il Maligno nelle notti di luna piena per arrecare sortilegi e indicibili malefizi come è tristo costume delle streghe?» Virginia chiuse gli occhi, ormai abituati al buio. «Sì. Portatemi via.» Il clamore riprese, dieci volte più fragoroso di prima. La bambina, la bocca piena di paglia per non fiatare, pianse per tutto il tempo, fino a quando il rumore andò allontanandosi e, con esso, l’unica persona al mondo con cui aveva parlato in vita sua. Infine, esausta, si addormentò, le dita intrecciate nella paglia e, nella mente, uno strano senso di tristezza che, in qualche modo, le parlava di libertà.
|